Dalla Presentazione di Franco Purini: Anche se la presentazione di un libro è di solito breve, un discorso sull’ultimo lavoro saggistico di Maurizio Oddo, dal programmatico titolo Dalla parte dell’architettura, non può essere iniziato senza una premessa su argomenti generali che spero non prenderà uno spazio eccessivo. Una premessa che riguarda la situazione attuale dell’architettura nella quale questa riflessione oddiana, per più versi originale nella sua struttura e nei suoi contenuti, si colloca. Il volume è un trattato in nuce dell’arte del costruire, quasi un manifesto che si oppone in vari modi agli orientamenti disciplinari oggi più diffusi.La situazione alla quale accennavo può essere definita come un neofunzionalismo non dichiarato, messo in relazione sia con una tecnologia sempre più autoreferenziale, divenuta un fine invece di restare un mezzo, sia con una figurazione esasperata che vuole competere con la scultura, l’installazione e l’immaginario della pubblicità dimenticando che l’architettura è essa stessa un’arte dotata di caratteri specifici e di peculiari processi di formalizzazione, nonché lo spazio di una comunicazione non mediatica, ma relativa alle invarianti dell’abitare e alle costanti tettonico-architettoniche che ne governano il linguaggio. Per motivi di spazio non posso addentrarmi in un’analisi puntuale di questa posizione oggi dominante che trova nella sostenibilità, e più in generale in un ambientalismo legato alla “decrescita felice” di Serge Latouche il proprio obiettivo principale. Dirò soltanto che l’orientamento oggi prevalente si identifica con una visionedel progetto che appare, più che un’autentica direzione di ricerca, una maniera espressiva ormai del tutto omologata, consistente in sostanza nella riduzione dell’architettura al suo aspetto utilitario accompagnato da venature sociologiche, vicino alla moda e immerso in un consumismo spesso criticato ma di fatto esaltato. Tutto ciò ha fatto sì che i valori fondamentali dell’architettura siano stati accantonati. Il rapporto tra paesaggio, architettura e città; dare vita a luoghi; considerare il senso del passato, ovvero la memoria, e del futuro, vale a dire la previsione di un abitare sempre più libero, avanzato e denso di maggiori opportunità per tutti come condizioni di un nuovo che sia veramente tale; la rappresentazione attraverso l’architettura di una comunità nella quale i conflitti si alternano a momenti di concordia; una relazione organica tra l’individuo e la società alla base della concezione degli spazi territoriali, urbani e architettonici; l’unione della chiarezza razionale e di motivi emozionali sono alcuni ambiti dell’architettura o, se si preferisce suoi elementi, che sono stati progressivamente dimenticati. L’essenza concettuale dell’architettura, ma anche la sua sostanza spirituale vengono così totalmente ignorate. Al loro posto l’euforia della globalizzazione pone in primo piano la celebrazione di uno sviluppo planetario che si materializza in una retorica dell’involucro, nella casualità dei nuovi tracciati urbani e nella disposizione altrettanto destrutturata degli edifici in essi. Nel frattempo l’enfasi teorica sul paesaggio sta contribuendo a eliminare dalla riflessione della maggioranza degli architetti alcune nozioni fondamentali come la morfologia, la tipologia, la coerenza tettonica a favore di un mondo formale che idealizza la natura mettendo in ombra quella matrice umanistica senza la quale il costruire perde gran parte del so significato. A conclusione di questa premessa va anche detto che la diffusione degli specialismi impedisce di avere uno sguardo d’assieme sull’abitare e sulle modalità del suo costituirsi. Nella sua introduzione, esemplare nella scrittura e nelle argomentazioni, Maurizio Oddo, prendendo atto della frammentazione disciplinare, dell’impossibilità di ritrovare nell’universo virtuale risorse tali da promuovere e assicurare il futuro dell’abitare, ma anche nella difficoltà di individuare nel momento caotico e disorientato che sta vivendo in questi anni l’architettura, afferma di avere scelto la via impervia e sperimentale di una lettura non lineare ma rizomatica della condizione presente della disciplina. Ciò non in base a una preferenza a priori di una tendenza ma alla luce del carattere labirintico e ampiamente contraddittorio dell’architettura contemporanea. Seguendo le indicazioni metaletterarie di George Perec e di Italo Calvino, le prime misteriche e insieme classificatorie, le seconde rivolte a un’interpretazione simbolica e al contempo strutturale del mondo all’insegna della variazione del punto di vista, l’autore del libro dedica i diciassette capitoli in cui esso si articola a nuclei teorici apparentemente indipendenti l’uno dall’altro. Come in un cretto - per inciso non è casuale, secondo me, la fotografia di un’opera di Alberto Burri nelle prime pagine del volume - questi blocchi tematici si accostano nella loro diversità creando un movimento ideale di visioni le quali, a una seconda lettura, si attraversano e si ibridano.Di solito, quando sono alla prese con un libro, mi viene in mente un’immagine che lo rappresenta. Nel caso del trattato oddiano tale figura è quella dell’arazzo, che nella visione frontale presenta un disegno leggibile, mentre nel verso mostra un’aggregazione apparentemente non interpretabile, fatta dell’intreccio dei fili colorati. In effetti, “Dalla parte dell’architettura” ha due identità testuali. E’, come dice l’autore, una mappa che propone alcuni itinerari conoscitivi, ma è anche un tessuto di illuminazioni teorico-critiche e iconiche che appaiono tra di loro indipendenti, costruendo un reticolo tridimensionale che può essere attraversato secondo una molteplicità di traiettorie. I singoli capitoli si duplicano poi nelle illustrazioni, alcune fuori testo, altre collegate ai contenuti esposti, in un coinvolgente gioco di rimandi, di connessioni e di indicazioni indirette. Dopo avere elencato alcuni dei suoi architetti di riferimento, il libro si aggira liberamente su vari argomenti, anche molto lontani tra di loro, alla ricerca di nuove relazioni tra l’architettura e territori espressivi contigui, distanti o, almeno apparentemente inconciliabili. Rifiutando le convenzioni che caratterizzano il dibattito contemporaneo sull’architettura, alle quali ho fatto cenno nella premessa a queste note, Maurizio Oddo dimostra una notevole originalità di pensiero - nonché un ammirevole coraggio - affrontando questioni oggi ritenute superate dalla maggior parte degli architetti, sedotti dal politicamente corretto e dall’aura mediatica. I contenuti profondi dell’architettura, quelli in cui il costruire riconosce le proprie finalità essenziali, sono esplorati con sapienza teorica e con una sincera partecipazione. Finalità chiaramente individuabili e nello stesso tempo sempre al di là di quanto di esse si riesce a comprendere. In quanto arte l’architettura, esprime infatti sempre qualcosa di più e di diverso rispetto agli obiettivi, anche i più avanzati, che essa si prefigge. Per questo quando un’opera architettonica è come dovrebbe essere, ovvero semplice e insieme complessa, coerente e contraddittoria, unica e plurale, non può non rivelarsi misteriosa, ogni volta oltre la più attenta e precisa interpretazione che ne possiamo dare. L’arazzo di Maurizio Oddo, con le sue due superfici in conflitto, è una presenza confortante nel panorama largamente conformista della riflessione individuale e collettiva sull’architettura, appiattita sulle ragioni del neofunzionalismo di cui ho parlato all’inizio di questa breve riflessione. Un neofunzionalismo che ingannevolmente vorrebbe sottrarre l’architettura ai rischi del formalismo e della casualità ma che produce in realtà solo una diffusa perdita delle motivazioni stesse del costruire. L’autore del libro ci ricorda che le attività umane, in modo particolare quelle artistiche sono rischiose, colme di dubbi, di possibilità di errori, ma ciò non impedisce che, qualsiasi sia il campo di azione, occorra assumersi personalmente la responsabilità di essere se stessi e nello stesso tempo di svolgere un lavoro utile al maggior numero di persone. Le architetture che immaginiamo e che vediamo divenire concrete, sono nostre ma debbono anche, per quanto è possibile, appartenere a tutti. Questa dualità, che ci ricorda il recto-verso dell’arazzo oddiano nutre le capacità dell’architetto, aiutandolo a concepire opere che, anche a chi le ha realizzate, sono in grado di proporre enigmi suggestivi e duraturi.
Dalla parte dell'Architettura Presentazione di Franco Purini
Maurizio Oddo
2019-01-01
Abstract
Dalla Presentazione di Franco Purini: Anche se la presentazione di un libro è di solito breve, un discorso sull’ultimo lavoro saggistico di Maurizio Oddo, dal programmatico titolo Dalla parte dell’architettura, non può essere iniziato senza una premessa su argomenti generali che spero non prenderà uno spazio eccessivo. Una premessa che riguarda la situazione attuale dell’architettura nella quale questa riflessione oddiana, per più versi originale nella sua struttura e nei suoi contenuti, si colloca. Il volume è un trattato in nuce dell’arte del costruire, quasi un manifesto che si oppone in vari modi agli orientamenti disciplinari oggi più diffusi.La situazione alla quale accennavo può essere definita come un neofunzionalismo non dichiarato, messo in relazione sia con una tecnologia sempre più autoreferenziale, divenuta un fine invece di restare un mezzo, sia con una figurazione esasperata che vuole competere con la scultura, l’installazione e l’immaginario della pubblicità dimenticando che l’architettura è essa stessa un’arte dotata di caratteri specifici e di peculiari processi di formalizzazione, nonché lo spazio di una comunicazione non mediatica, ma relativa alle invarianti dell’abitare e alle costanti tettonico-architettoniche che ne governano il linguaggio. Per motivi di spazio non posso addentrarmi in un’analisi puntuale di questa posizione oggi dominante che trova nella sostenibilità, e più in generale in un ambientalismo legato alla “decrescita felice” di Serge Latouche il proprio obiettivo principale. Dirò soltanto che l’orientamento oggi prevalente si identifica con una visionedel progetto che appare, più che un’autentica direzione di ricerca, una maniera espressiva ormai del tutto omologata, consistente in sostanza nella riduzione dell’architettura al suo aspetto utilitario accompagnato da venature sociologiche, vicino alla moda e immerso in un consumismo spesso criticato ma di fatto esaltato. Tutto ciò ha fatto sì che i valori fondamentali dell’architettura siano stati accantonati. Il rapporto tra paesaggio, architettura e città; dare vita a luoghi; considerare il senso del passato, ovvero la memoria, e del futuro, vale a dire la previsione di un abitare sempre più libero, avanzato e denso di maggiori opportunità per tutti come condizioni di un nuovo che sia veramente tale; la rappresentazione attraverso l’architettura di una comunità nella quale i conflitti si alternano a momenti di concordia; una relazione organica tra l’individuo e la società alla base della concezione degli spazi territoriali, urbani e architettonici; l’unione della chiarezza razionale e di motivi emozionali sono alcuni ambiti dell’architettura o, se si preferisce suoi elementi, che sono stati progressivamente dimenticati. L’essenza concettuale dell’architettura, ma anche la sua sostanza spirituale vengono così totalmente ignorate. Al loro posto l’euforia della globalizzazione pone in primo piano la celebrazione di uno sviluppo planetario che si materializza in una retorica dell’involucro, nella casualità dei nuovi tracciati urbani e nella disposizione altrettanto destrutturata degli edifici in essi. Nel frattempo l’enfasi teorica sul paesaggio sta contribuendo a eliminare dalla riflessione della maggioranza degli architetti alcune nozioni fondamentali come la morfologia, la tipologia, la coerenza tettonica a favore di un mondo formale che idealizza la natura mettendo in ombra quella matrice umanistica senza la quale il costruire perde gran parte del so significato. A conclusione di questa premessa va anche detto che la diffusione degli specialismi impedisce di avere uno sguardo d’assieme sull’abitare e sulle modalità del suo costituirsi. Nella sua introduzione, esemplare nella scrittura e nelle argomentazioni, Maurizio Oddo, prendendo atto della frammentazione disciplinare, dell’impossibilità di ritrovare nell’universo virtuale risorse tali da promuovere e assicurare il futuro dell’abitare, ma anche nella difficoltà di individuare nel momento caotico e disorientato che sta vivendo in questi anni l’architettura, afferma di avere scelto la via impervia e sperimentale di una lettura non lineare ma rizomatica della condizione presente della disciplina. Ciò non in base a una preferenza a priori di una tendenza ma alla luce del carattere labirintico e ampiamente contraddittorio dell’architettura contemporanea. Seguendo le indicazioni metaletterarie di George Perec e di Italo Calvino, le prime misteriche e insieme classificatorie, le seconde rivolte a un’interpretazione simbolica e al contempo strutturale del mondo all’insegna della variazione del punto di vista, l’autore del libro dedica i diciassette capitoli in cui esso si articola a nuclei teorici apparentemente indipendenti l’uno dall’altro. Come in un cretto - per inciso non è casuale, secondo me, la fotografia di un’opera di Alberto Burri nelle prime pagine del volume - questi blocchi tematici si accostano nella loro diversità creando un movimento ideale di visioni le quali, a una seconda lettura, si attraversano e si ibridano.Di solito, quando sono alla prese con un libro, mi viene in mente un’immagine che lo rappresenta. Nel caso del trattato oddiano tale figura è quella dell’arazzo, che nella visione frontale presenta un disegno leggibile, mentre nel verso mostra un’aggregazione apparentemente non interpretabile, fatta dell’intreccio dei fili colorati. In effetti, “Dalla parte dell’architettura” ha due identità testuali. E’, come dice l’autore, una mappa che propone alcuni itinerari conoscitivi, ma è anche un tessuto di illuminazioni teorico-critiche e iconiche che appaiono tra di loro indipendenti, costruendo un reticolo tridimensionale che può essere attraversato secondo una molteplicità di traiettorie. I singoli capitoli si duplicano poi nelle illustrazioni, alcune fuori testo, altre collegate ai contenuti esposti, in un coinvolgente gioco di rimandi, di connessioni e di indicazioni indirette. Dopo avere elencato alcuni dei suoi architetti di riferimento, il libro si aggira liberamente su vari argomenti, anche molto lontani tra di loro, alla ricerca di nuove relazioni tra l’architettura e territori espressivi contigui, distanti o, almeno apparentemente inconciliabili. Rifiutando le convenzioni che caratterizzano il dibattito contemporaneo sull’architettura, alle quali ho fatto cenno nella premessa a queste note, Maurizio Oddo dimostra una notevole originalità di pensiero - nonché un ammirevole coraggio - affrontando questioni oggi ritenute superate dalla maggior parte degli architetti, sedotti dal politicamente corretto e dall’aura mediatica. I contenuti profondi dell’architettura, quelli in cui il costruire riconosce le proprie finalità essenziali, sono esplorati con sapienza teorica e con una sincera partecipazione. Finalità chiaramente individuabili e nello stesso tempo sempre al di là di quanto di esse si riesce a comprendere. In quanto arte l’architettura, esprime infatti sempre qualcosa di più e di diverso rispetto agli obiettivi, anche i più avanzati, che essa si prefigge. Per questo quando un’opera architettonica è come dovrebbe essere, ovvero semplice e insieme complessa, coerente e contraddittoria, unica e plurale, non può non rivelarsi misteriosa, ogni volta oltre la più attenta e precisa interpretazione che ne possiamo dare. L’arazzo di Maurizio Oddo, con le sue due superfici in conflitto, è una presenza confortante nel panorama largamente conformista della riflessione individuale e collettiva sull’architettura, appiattita sulle ragioni del neofunzionalismo di cui ho parlato all’inizio di questa breve riflessione. Un neofunzionalismo che ingannevolmente vorrebbe sottrarre l’architettura ai rischi del formalismo e della casualità ma che produce in realtà solo una diffusa perdita delle motivazioni stesse del costruire. L’autore del libro ci ricorda che le attività umane, in modo particolare quelle artistiche sono rischiose, colme di dubbi, di possibilità di errori, ma ciò non impedisce che, qualsiasi sia il campo di azione, occorra assumersi personalmente la responsabilità di essere se stessi e nello stesso tempo di svolgere un lavoro utile al maggior numero di persone. Le architetture che immaginiamo e che vediamo divenire concrete, sono nostre ma debbono anche, per quanto è possibile, appartenere a tutti. Questa dualità, che ci ricorda il recto-verso dell’arazzo oddiano nutre le capacità dell’architetto, aiutandolo a concepire opere che, anche a chi le ha realizzate, sono in grado di proporre enigmi suggestivi e duraturi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.